Ceramica protocorinzia e corinzia

Van der Wielen-Van Ommeren, Frederike; Mekacher, Nina; Christiansen, Jette (2006). Ceramica protocorinzia e corinzia In: La Dea di Sibari e il santuario ritrovato. Bolletino d'Arte: Vol. Volume (pp. 85-272). Roma: Libreria dello stato

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l secondo tomo del Volume Speciale del Bollettino d’Arte relativo al materiale archeologico restituito all’Italia dai depositi dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Berna e dal Museo J. P. Getty di Malibu (oltre a quello tuttora conservato nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen) in quanto proveniente dal santuario rinvenuto sull’acropoli del Timpone Motta di Francavilla Marittima nell’entroterra di Sibari ed illegalmente scavato e trasferito sul mercato antiquario d’oltralpe negli ultimi decenni del secolo scorso, comprende ancora reperti ceramici e si lega direttamente al precedente, denominato I.1. Si riferisce a frammenti di fabbriche greche, della produzione cosiddetta coloniale (la maggior parte, in termini quantitativi), di produzione indigena, a terracotte architettoniche e ad oltre 50 manufatti in materiali diversi. Le prime due sezioni del volume descrivono vasi e reperti ceramici importati dalla Grecia orientale e dall’Acaia, oltre ad esemplari di tipo coloniale o locale da essi derivati (cd. East Greek–style e Achaian–style wares). Vi sono evidenziati i problemi relativi a queste tipologie, e in particolare la mancanza di dati che consentano l’attribuzione di ciascun reperto, o gruppi di reperti, ad uno specifico centro di produzione. Va inoltre fatto osservare come fra importazioni dalla Grecia orientale e le imitazioni locali la distinzione non sia sempre netta, e come nell’ultima classe si possano trovare copie di vasi greci (o dei loro schemi decorativi) che dimostrano un’influenza dai centri greco–orientali o la combinazione di influssi da diversi centri di produzione, il cui esito finale è uno stile decisamente eclettico. Nella seconda sezione relativa alla produzione achea o di tipo acheo individuata nel nucleo Berna–Malibu vengono illustrati in sostanza i kantharoi monocromi o quelli definiti come banded kantharoi, ovvero a fasce risparmiate sul corpo e decorate con linee orizzontali che contraddistinguono anche il bordo. La scelta del termine “acheo” (o “di tipo acheo”) individua le regioni o siti cui tale termine si riferisce, pur nella difficoltà di stabilire con certezza — allo stato attuale delle conoscenze — l’origine (come pezzi importati o di produzione locale) di tutti i reperti. La terza parte del volume comprende il catalogo dei pezzi relativi alla ceramica coloniale. Sotto tale denominazione sono stati raggruppati vasi e frammenti appartenenti alla classe designata come “coloniale dipinta”, ovvero quella caratterizzata da forme e schemi decorativi più o meno influenzati dal vasellame importato dalla Grecia e prodotta nelle colonie greche o nelle regioni dell’Italia meridionale poste sotto l’influsso diretto di tali colonie (ad esempio le isole dello Ionio, o le città coloniali della Grecia dell’Est), secondo una propria linea di produzione indipendente. Ne risulta una quantità di reperti molto ricca e variata dal punto di vista delle fabbriche, delle forme o della decorazione, e che in molti casi differisce notevolmente dagli esemplari di importazione. L’argilla è in genere piuttosto fine e depurata, ma spesso contiene inclusi e tracce di mica. Le analisi chimiche ancora da effettuare su di essa potranno definire meglio la questione dei centri di produzione, e risultare senz’altro risolutive anche per attribuire una serie di pezzi, finora rimasti a margine della classificazione presentata in questo Volume, ad un centro di produzione preciso, sia esso Corinto o piuttosto una fabbrica localizzabile e operante nelle isole dello Jonio o nell’Italia meridionale su modelli corinzi, stando alle ipotesi più diffuse tra gli specialisti. Fra tali pezzi sono da segnalare una prevalenza di kyathoi e kotylai. Circa la questione della localizzazione delle officine di produzione della maggior parte di questa ceramica “coloniale” trovata nel santuario sul Timpone della Motta, si è sempre ritenuto che essa sia stata prodotta essenzialmente a Sibari, o nella pianura che circonda la colonia. L’équipe del G.I.A. (che effettua dagli anni Novanta del secolo scorso le ricerche nel sito) ha tuttavia proposto recentemente di distinguere fra una produzione ceramica “regionale” (intesa in senso geografico antico) estesa alla zona lucana e all’area del Metapontino in particolare, ed una “locale” propria della Sibaritide. Anche la scoperta sul Timpone della Motta di frammenti di hydriskai, kanthariskoi e coppe definiti “stracotti”, ovvero sottoposti ad una cottura troppo lunga o ad una temperatura eccessiva, può suggerire l’esistenza di una officina nel sito. Tale ipotesi troverebbe ulteriore conferma nella presenza, tra i reperti ceramici, di “anelli di accatastamento” destinati all’impilatura del vasellame nella fornace. Essa, sita nelle vicinanze del santuario, sulle prime pendici della collina sotto l’Altopiano I, avrebbe funzionato — secondo la datazione fornita per i frammenti “stracotti” — dall’inizio del VII sino alla metà del VI secolo a.C. Nella sezione 4 del Volume si esamina la ceramica indigena presente nel lotto Berna–Malibu, suddivisa in 95 vasi (ivi compreso un esemplare integro ora a Copenhagen), 13 fusarole e 14 pesi da telaio; mentre la sezione 5 è dedicata ai Varia, ovvero a diversi oggetti in faïence, in vetro, avorio ed osso, pietra e terracotta, spesso a carattere votivo. Una sesta sezione con sei terracotte architettoniche (tre antefisse, un frammento di lastra di rivestimento e due rilievi figurati frammentari) completa il Volume. Nell’Introduzione, preceduta dalla Premessa di carattere storico di G. Pugliese Carratelli, vengono anche fornite alcune anticipazioni sulla campagna di scavo condotta nel 2008 sull’acropoli del Timpone Motta dall’équipe del G.I.A., dal momento che forniscono elementi utili per lo studio e la contestualizzazione dei materiali del lotto Berna–Malibu sin qui pubblicati. In particolare, si osservi come ad Est dell’edificio Vd è stato rinvenuto un altare con uno strato di ceneri sovrapposte da cui sono emerse una decina di phialai in bronzo analoghe a quelle già edite nel Volume II.1, ed un’ansa verticale in bronzo (pertinente ad un’hydria), associata a molte hydriai di produzione coloniale sia in frammenti che intere. L’associazione con vasi corinzi permette di datare il contesto (non sconvolto dagli scavi clandestini che punteggiano la zona) al secondo quarto del VI a.C. Inoltre, nell’approfondire una trincea praticata a suo tempo da M. Kleibrink a Sud–Est dell’Edificio V, al fine di sistematizzare l’area già interessata dalle buche dei clandestini e recuperare una stratigrafia che permetta di definire meglio la cronologia del materiale (a carattere votivo) ivi repertato, sono emersi alcuni oggetti particolarmente significativi se messi in relazione con quanto qui edito. Innanzitutto un frammento di parete provvisto di piede si ricongiunge ad un altro pezzo già nel Volume I.1 (p. 257, n. 2, figg. 14 a–b) e permette di capirne meglio la forma, riconoscibile come quella di una phiale non mesonfalica. Vi è poi una figurina frammentaria in avorio di toro accovacciato direttamente confrontabile — anche come misure — con l’esemplare integro della Ny Carlsberg Glyptotek cui si fa menzione qui nei Varia, al C1. Da un’altra trincea nelle vicinanze proviene un orlo frammentato di una grande kotyle decorata con motivi subgeometrici, riferibili al repertorio della produzione di Itaca. Tuttavia l’argilla non è identica a quella delle fabbriche note dell’isola, ma piuttosto confrontabile con quella dei manufatti provenienti dal sito dell’Incoronata di Metaponto o dalla pianura di Sibari. Anche altri frammenti di “ceramica coloniale” dal lotto Berna–Malibu presentano una decorazione pittorica confrontabile con la ceramica prodotta nell’isola di Itaca, sebbene l’argilla mostri, per la presenza di mica, maggiori affinità con il vasellame dell’Incoronata. Sempre sulla base della composizione dell’argilla, si può inoltre considerare accertata la fabbricazione di kantharoi di tipo cosiddetto “acheo” nella Sibaritide ed in area sirite–metapontina. Altra bottega locale è quella responsabile della serie di pissidi globulari, le cosiddette bag–shaped, un esemplare delle quali campeggia nella foto di copertina. Sebbene pezzi di confronto siano stati ritrovati a Taranto e Brindisi, e la forma evochi esemplari dall’isola di Creta, siamo informati anche di rinvenimenti dal Timpone della Motta (a seguito degli scavi Kleibrink), la cui argilla — caratterizzata da abbondanza di mica — induce a credere ad una loro produzione sul posto. Sempre in tema di rapporti con l’area messapica, ricca è la presenza nel santuario della Motta di ceramica importata da questa regione: gli oltre 60 esemplari, individuati di recente, attestano scambi esistenti nella seconda metà dell’VIII secolo fra la Messapia e gli abitanti del sito di Francavilla. Infine, merita di fare un cenno alla frequenza di ceramica euboico–cicladica in epoca pre–coloniale sul Timpone della Motta, allorché la documentazione di altri manufatti greci sul posto risulta ad oggi piuttosto scarsa, tranne pochi esemplari di importazione corinzia attestati fra il secondo e il terzo venticinquennio dell’VIII a.C. Nella prima metà del secolo le importazioni di ceramica corinzia sulle coste ioniche si limitano quasi esclusivamente proprio al Salento e al sito di Francavilla Marittima, mentre è noto come nell’ultimo quarto la presenza del vasellame greco cresca in modo esponenziale. Per la produzione della ceramica “coloniale”, documentata sulla scia delle importazioni euboico–cicladiche e corinzie, all’epoca delle fondazioni delle colonie greche sulle coste ioniche d’Occidente si registra invece un’imitazione molto evidente e numericamente consistente degli esemplari corinzi, seguiti da quelli di tipo greco–orientale e, in misura minore, da quelli cosiddetti “achei”. Altro punto fondamentale che emerge dagli scavi sistematici avviati dal 1993 a Francavilla Marittima riguarda la cosiddetta “Stipe I”, già individuata sull’acropoli da W. Stoop. È ormai evidente come essa in realtà non fosse un normale deposito votivo, ma piuttosto uno scarico accumulatosi lungo il lato meridionale della collina per successive fasi di “pulitura” delle varie costruzioni ivi presenti, oltre che per “azioni votive” condotte nel corso del VII e all’inizio del VI secolo a.C. presso i muri di temenos ed all’esterno dell’Edificio V. In questo contesto le forme della ceramica coloniale maggiormente documentate trovano un perfetto riscontro nell’insieme del materiale da Berna, Malibu e Copenhagen, pur nella consapevolezza che si tratta di un materiale “misto” per la sua provenienza dal mercato antiquario, come attestano alcuni esemplari estranei a quanto sinora rinvenuto sull’acropoli del Timpone Motta.

Item Type:

Book Section (Book Chapter)

Division/Institute:

Bern Academy of the Arts
Bern Academy of the Arts > HKB Teaching

Name:

Van der Wielen-Van Ommeren, Frederike;
Mekacher, Nina0009-0008-0902-8479 and
Christiansen, Jette

Subjects:

C Auxiliary Sciences of History > CC Archaeology

ISSN:

0394-4573

Series:

Bolletino d'Arte

Publisher:

Libreria dello stato

Language:

Italiano

Submitter:

Nina Mekacher

Date Deposited:

23 Jan 2024 15:08

Last Modified:

23 Jan 2024 15:08

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URI:

https://arbor.bfh.ch/id/eprint/20954

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